Ogni anno in Italia si coltivano in media 5 milioni di tonnellate di pomodoro, la metà dell’intero volume europeo e il 14% di quello mondiale. Si tratta dell’attività principale del settore ortofrutticolo italiano in quanto tratta un prodotto simbolo dell’agricoltura nazionale, per qualità e quantità.
Il caporalato
All’interno del settore gli operatori devono fronteggiare il problema dello sfruttamento dei braccianti che si concretizza nel caporalato, una forma illegale di reclutamento ed organizzazione di forza lavoro. Gli intermediari, detti caporali, assumono operai per un breve periodo, giornaliero o al più settimanale, senza rispettare le regole di assunzione e i diritti dei lavoratori.
Tale fenomeno riguarda per lo più la raccolta manuale dei pomodori, un’attività diffusa principalmente al Sud d’Italia in cui i frutti devono essere colti in poche settimane a causa della facile deperibilità del prodotto stesso. In Italia circa la metà dei rapporti di lavoro è illecita, si stimano, infatti, 400 mila lavoratori non regolari, che causano un mancato gettito per le casse pubbliche pari a 600 milioni di euro. Le forme con cui tale fenomeno si presenta sono le più disparate, da un semplice illecito amministrativo sino alla violenza esercitata sulla manodopera debole e ricattabile, come spesso accade con i migranti senza permesso di soggiorno. Nello specifico l’attività di raccolta viene concentrata in 45/60 giorni, un periodo talmente breve che in caso di adozione di procedure manuali richiede spesso di reclutare in poche ore nuovi braccianti.
Questa mancanza di operatori comporta problemi logistici ed organizzativi connessi all’alloggio e al trasporto del personale nei campi. Tale situazione è, poi, aggravata dall’esistenza di organizzazioni di produttori, incaricati di mediare con le imprese di trasformazione, incapaci di fornire il giusto supporto logistico, burocratico ed organizzativo agli agricoltori. L’assenza di tale sistema incrementa, quindi, la diffusione del caporalato dando vita ad un gioco di potere del quale spesso ne fanno le spese i lavoratori, anello debole della catena. Quest’ultimi vengono, infatti, pagati a cottimo, una forma di retribuzione illegale calcolata in base alla quantità di lavoro fornito, che prevede in media somme tra i 3€ e i 5€ per una cassa di 300 kg di pomodori. Queste avverse condizioni di lavoro hanno evidenti ripercussioni sullo stile di vita dei braccianti sfruttati che spesso sono costretti ad abitare in baraccopoli tra le campagne agricole ed a raggiungere i campi con mezzi di trasporto illeciti e sovraccaricati.
Come affrontare il problema
Un primo passo verso la soluzione del problema del caporalato si riscontra nella legge 199 varata nel 2016 contenente disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento della manodopera in agricoltura e del riallineamento retributivo nel settore agricolo. Nonostante la norma abbia inasprito le pene, perseguendo i titolari di aziende agricole e la figura del caporale, il problema persiste all’interno di numerose realtà produttive a causa dell’assenza di strumenti in grado di far rispettare adeguatamente a legge.
Al riguardo la buona notizia è la nascita di numerose associazioni di produttori e di aziende agricole volte a creare una filiera trasparente in grado di tutelare i diritti dei lavoratori. Queste associazioni operano nell’intento di sensibilizzare il consumatore ai temi etici. Al riguardo si impegno nella divulgazione dell’idea di selezionare i prodotti alimentari prestando attenzione alle condizioni in cui operano i lavoratori in modo da scegliere beni privi di sfruttamento. Si tratta di un arduo compito che richiede la realizzazione di un piano di sensibilizzazione ampio in cui uno degli elementi principali è il prezzo di vendita. Si nota, infatti, che la spirale negativa che associa il caporalato e la malavita all’atto della raccolta del pomodoro viene alimentata dalla competizione sul prezzo.
A titolo di esempio nel 2018 un chilo di pomodoro da salsa veniva venduto a 7,5 centesimi per il bacino del Nord d’Italia ed a 8,7 centesimi per il Centro-Sud. Tali cifre sono evidentemente troppo basse, sufficienti a malapena a remunerare i distretti automatizzati in cui le spese sono estremamente ridotte, ma sicuramente non quelli della raccolta manuale, caratterizzata da grandi quantità di manodopera.
A tal proposito Goodland, associazione che si occupa di armonizzare l’impatto sociale dell’agricoltura, sostiene che per garantire condizioni di lavoro legali bisognerebbe triplicare i prezzi citati, raggiungendo somme pari ad almeno 20-25 centesimi al chilo. In questo scenario verrebbero tutelati tutti gli attori della filiera, inclusi i braccianti che verrebbero remunerati per il duro lavoro svolto e il consumatore che potrebbe acquistare ugualmente i prodotti finiti a prezzi irrisori, circa pari a 2,50 euro al chilo.
La situazione ad oggi
Oggigiorno il problema del caporalato e dello sfruttamento dei braccianti persiste sia per la mancanza di strumenti ma soprattutto per una percezione della situazione sommaria da parte degli attori coinvolti. Infatti, nonostante le numerose campagne di sensibilizzazione avviate, molti discount continuano a vendere barattoli di 500 grammi di passata a 40-50 centesimi, prezzo estremamente ridotto che nasconde le problematiche già citate. A questo si aggiunge la tendenza sempre più frequente di condurre aste per fissare i prezzi in anticipo rispetto alla raccolta.
Si tratta, infatti, di vere e proprie contrattazioni telematiche, organizzate da insegne della grande distribuzione qualche mese prima della raccolta, con lo scopo di accaparrarsi i barattoli al minor costo possibile. Questo comportamento ha ripercussioni su tutte le industrie del settore, costrette a vendere il prodotto sottocosto pur di non perdere la commessa, ma per lo più sugli agricoltori, obbligati a tagliare il costo del lavoro ricorrendo alle pratiche illegali descritte. In conclusione, per combattere questo sistema, risulta fondamentale che tutti gli attori della filiera, in primis i consumatori, si impegnino a combattere tali pratiche illegali prediligendo prodotti “buoni anche per chi li produce”.
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